Luigi Quarta
La laboriosità del tessitore diretta non già al medicamento dei mali ormai compiuti ma, piuttosto, al prevenire di essi, sembra trovare piena rappresentanza quando a tentare tale prevenzione è il getto artistico privato di inutili traverse o elementi di secondo valore che nient’altro possono fare se non distogliere dall’elemento precipuo e centrale: l’atto del forgiare. Ora, è manifesto che ciò che emerge da questo corteggio di opere è un perspicuo rifiuto ad una linea concreta o a frasi di rigida circoscrizione, un ricusare l’a priori di unilateralità delle forme o, altrimenti detto: fare di un apparente intersecarsi di piani un unico piano netto e distinto, non eteronomo ma pienamente autonomo rispetto a quelli che, fuoriuscendo in una radura di piaghe, appaiono e dispaiono. Ciò che, pertanto, sembra apparire è sì bene un tripudio di colori, un’effervescenza di cromatismi che distornano con maggior o minor successo qualche retaggio di tratto composito – il quale traluce quando più quando meno da alcune opere – ma è, altrettanto, una volontà d’ordine, una ricerca spasmodica di un filo deciso, rigoroso, attraverso un’indagine e puramente manuale e pienamente pittorica fra loro, in prima sembianza, molto dissimili. Dinanzi a tutto questo le opere hanno una loro propria individualità concessa non dai vedenti ma dalle opere stesse, dimidiate da altre fonti di soggezione le quali, tuttavia, sono già estranee al complesso di forme che sembrano spiegarsi e compirsi in un moto loro proprio.
Esse sembrano vivere in una perseverante convalescenza che non sembra mai aver fine effettivo e, per questo, nella completa mancanza d’un ordine teleologico vi si ritrae una piena e naturale soggettività. Soggettività ritrovata scavando non attraverso un intento finalistico ed estrinseco ma profondendo in un disegno intrinseco, conchiuso in se stesso, rigido in se stesso, ove il principio e la fine necessariamente convogliano. Da un punto di vista formale perciò non esplodono ma, piuttosto, implodono: hanno una propria vitalità per entro la loro virulenza. Le opere si smuovono, si disfanno, si rifanno senza mai perdere il loro senso ma rintracciandolo in perpetuo, suggerendo e suggerendosi, contraendosi in uno sfarzo che lascia distante e al contempo vicinissimo il guardante, esso rendendo talvolta partecipe talvolta estraneo e, per appunto, tramite questo ricorso antitetico, giungendo ad individuare un fine per sé non deprivo di organicità, ma chiaro e netto dopo le abbisognate antitesi. Il ricorso quindi e il concorso che si snoda fra il filare, lo snodarsi delle stoffe rammenta ad una sorta di probante e ricucitura delle forme, misconoscendo ogni tipo di sicurezza e solidità e, per incontro, un’assoluta instabilità, una perfetta incoerenza che, tuttavolta, attraverso il legame compìto riesce, aspergendo la reazione incoerente ad un unico nume, a ritrovare se stessa e per di più a introiettare i contenuti – non meri contenenti ma contenuti – verso una rigida austerità.
Le opere vivono, quindi, per se stesse, ingenerando nella loro predisposizione a proporsi una coeva volontarietà di ritrazione, adagiandosi nella loro propria fisicità ma proprio in virtù e per grazia del loro rigido animo gelosamente privatistico, epidermicamente drastico e deciso, radicalmente e ossessivamente conchiuso nella rigorosità e compostezza dei prenunziati dettami, compiono il superamento giungendo all’inversione dovuta ch’apre al contemplatore le vere forme di ricezione di cui le opere necessitano. Il tentativo radicale dei dipinti diviene metabolizzazione per sviare verso un’altra realtà, non già diversa, ma neppur dipendente, bensì, piuttosto, figlia della prima e, pertanto, in quando prole libera e svincolata, da essa spiritualmente indivisibile.
Tutto ciò si riflette nelle opere di Quarta senza tramezzi, o linee di confine, senza strascichi di mediazione o lavorii mezzani d’ogni sorta ma con pura e diretta espressione, con pretta e verace fisionomia di compatta concrezione.
Jacopo Volpi
(Riproduzione riservata)
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